Finale di stagione (ovvero: "What deserves to be highlighted, has to be highlighted")

E’ logico e ovvio che con l’inizio della mia stagione preferita io debba sentire l’impulso violento di parlarne.

Autunno, dai senso a tutto ciò che di romanticamente significativo c’è: la musica in macchina; le felpe calde e i cappucci tirati sulle frange tagliate di fresco; le scarpe pestate nelle pozze sporche di fango e foglie, che buttano al naso, più che un odore, una sensazione.
L’autunno ti porta a guardare gli edifici con uno sguardo grigio, torvo. Tutto diventa color seppia.
Il cielo ti sussurra: copriti.
Non si vede persona scoperta: rinasce il pudore. L’autunno è retrogrado anche in quello: lo scoprirsi è sintomo di volersi scoprire, non più di necessità per combattere il caldo. Se ti scopri, c’è un motivo. Se ti togli la felpa, o è per seduzione, o per follia. In parte questa regola vale anche per l’inverno, ma l’inverno è poetico solo per chi vuole vendere dischi di natale.

La musica in macchina acquisisce significato, foglia dopo foglia caduta sull’asfalto, pozza dopo pozza pestata con le gomme anteriori.
I pub, dopo sei mesi tondi, tornano ad avere un senso. D’estate, il pub è la fornace in cui si beve birra. D’autunno, il pub è il rifugio dove si beve birra. Preferite una fornace o un rifugio?

So bene che per molti dei lettori l’autunno è sintomo di terribili mal di pancia scolastici. Passati quegli anni, cari amici, avrete sensazioni che, per farvi capire, definirei “da foto su Instagram”.

Oh santo dio in cui non credo, dammi la possibilità di godermi quanti più autunni possibili.
Concedimi quante più facoltà possibili di descriverli, a me per gli altri.
Dammi tutti e cinque i sensi, per commuovermi davanti a cotanta beltà.
Così sia.

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